Cos’è lo Shindo

  1. Cos’è lo shindo?

Lo shindo è una via marziale, ossia un sistema che utilizza una struttura tecnica complessa, avente  finalità di combattimento, e la trasforma in Do – via – ossia  nella possibilità che essa stessa diventi strumento di crescita personale, non solo fisica ma anche psicologica e, per taluni individui predisposti, spirituale.

  1. Perché parli di individui predisposti, lo shindo non è per tutti?

Assolutamente sì, in astratto. Però le persone che si riferiscono ad un’arte marziale in genere hanno in mente alcune scuole e/o stili noti, o alcune finalità specifiche, che nel nostro occidente pragmatico sono molto elementari: difendersi, quando va bene, o talvolta semplicemente sfogarsi. Però una via marziale non nasce per individui compressi che si sfogano, ma per persone che hanno scelto quello strumento per conoscersi. E servono individui che hanno il coraggio di conoscersi, non tutti hanno questa forza interiore.

  1. Mi sembra che “sfogarsi” non sia un termine che ami?

In effetti non lo amo affatto. La nostra vita oscilla tra alti e bassi, esaltazione e depressione, positività e negatività, comprimere per poi sfogarsi. Ci insegnano a lavorare come matti, delle vere bestie da soma – alcuni filosofi contemporanei vedono l’idea che abbiamo del lavoro come il prodotto di un’ipnosi collettiva, il cui risultato è un individuo obbediente, compresso e nevrotico ma obbediente. In questo modello la c.d. “vacanza”, ad esempio, funge da decompressore, fa uscire l’energia in eccesso e pacifica la naturale ribellione di un individuo sano. Ecco, nel praticare una via si esce completamente dall’idea di sfogo perché si lavora a monte in un clima di libertà assoluta.

  1. Ma quindi se si lavora nella libertà, in che modo possiamo definire l’arte marziale una “disciplina”?

La disciplina è la traccia di una strada, simile allo scavare una mulattiera: essa permette all’individuo di raggiungere la vetta della propria montagna. La cima è sempre là, disponibile, ma occorre una strada. E la disciplina la crea.

Abbiamo generalmente un’idea limitata della disciplina, simile ad una costrizione, l’ennesima. In realtà è l’attitudine ad apprendere – ad essere discepoli nel senso più profondo del termine.

Costanza, pazienza, perseveranza ed umiltà sono le chiavi della trasformazione.

  1. Si può considerare la “difesa personale” come un fine dello shindo?

Non esiste la difesa personale: coloro che sanno difendersi, che conoscono la propria aggressività e la accolgono non si interessano al termine in questione: se praticano un’arte marziale o più facilmente uno sport da combattimento lo fanno e basta. Se vivono per strada in ambienti pericolosi, si difendono e basta.  Chi invece vorrebbe imparare a difendersi è l’individuo civilizzato ed esso deve prima di tutto accettare le forti implicazioni che lo “scontro” in generale comporta. Non si impara a difendersi ma ad attaccare e ad essere attaccati, un grande lavoro sulla paura che abbiamo tutti del conflitto, fisico e non,  e del dolore cui è associato.

Nella via marziale si porta questo confronto all’estremo entrando nella dimensione tabù della perdita di sé, o morte. Solo in quella “distanza” dalla nostra vita consueta, fatta di sicurezze e vie di fuga, si può scoprire l’inattesa libertà che ivi si nasconde.

  1. Quindi se non si viene a shindo per imparare a difendersi né per sfogarsi perché bisognerebbe partecipare?

La vita è immensa e sconosciuta, dentro ognuno di noi c’è questo sapore di scoperta e di sfida. Si pratica una via marziale per lo stesso motivo per cui si ascende una montagna: per vedere un orizzonte più vasto. Solo che una montagna resta là, mentre la via ti segue e tu divieni la via. Partecipare a shindo è un modo per me bellissimo di incamminarsi verso la cima.

  1. I corsi che tieni sono aperti quindi a tutti?

In questo momento mi sto dedicando ai preadolescenti e adolescenti, in tre centri diversi di Milano. Con gli adulti ho lavorato per anni, spesso si avvicinano per imparare qualche mossa per difendersi o per sentirsi più forti, rispetto a questo preferisco chi viene per sentirsi allenato. Per evitare queste “riduzioni” dell’arte, preferisco lavorare sui giovani, che sono ancora in fieri: adesso ho in progetto di aprire un corso per giovani donne dai 20 ai 35 anni circa, le quali in un ambiente protetto possono sperimentare quella declinazione dell’energia che chiamiamo estroversa, nella modalità specifica che tradizionalmente è riservata agli uomini. Ma questa modalità non è “degli” uomini, è di tutti.

E non è al servizio della violenza, ma la previene. Perché senza vittima non c’è spazio per il carnefice – parafrasando Sartre.

  1. Come si svolge concretamente una lezione?

Ci sono circa 40 minuti di allenamento intenso, che utilizza vari parametri di forza, principalmente svolto a corpo libero, con pochi attrezzi. Poi c’è lo studio delle tecniche, a solo e in coppia. Tecniche sia in piedi (colpi di braccia e di gambe, parate, proiezioni), che a terra (tecniche di immobilizzazione, leve articolari, ecc..). Gioco molto sul cambio del ritmo, la mente è indotta ad essere vigile, il corpo ad essere uno con essa.

In coppia raramente si deve arrivare allo scontro fisico, il gesto ripetuto è sufficiente per il nostro sistema nervoso: esso apprende velocemente, dipende dal metodo. Tuttavia di tanto in tanto indossare le protezioni aiuta a confrontarsi con la paura del dolore e dello scontro più  intenso, e questo è parte del gioco. Ovviamente è facoltativo e in ogni caso si svolge in modo protetto ma soprattutto all’interno di un ambiente pregno di rispetto e gratitudine, per me fondamentali.

  1. I praticanti lo shindo diventano persone più sicure?

La sicurezza è una chimera, l’essere umano la insegue invano da migliaia di anni. Chi pratica una via “vera” diventa più disponibile all’incertezza, più forte interiormente perché smette di cercare paracaduti, si getta e basta. Intuisce che oltre il gioco di vita e morte esiste quella che chiamiamo Esistenza, una dimora molto più vasta che racchiude ogni coppia di opposti, perché nasce non-duale. Se il praticante riesce a sfiorarla ne rimane folgorato a vita! E la sua anima a quel punto conosce il motivo del suo risalire la vetta. Nulla di più antico e al contempo semplice. In altre parole si può dire che impariamo a “diventare noi stessi”, non solo l’uomo o la donna che sono in noi, ma anche il semi-dio tanto caro ai nostri padri greci. Non esiste altro imperativo esistenziale, secondo la mia esperienza.

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