I Maestri che non ci sono
Ultimamente osservando il mondo dello yoga si resta perplessi.
Scuole, decine e decine di scuole, in tutta Italia e poi fuori, migliaia nel mondo, che sfornano insegnanti. Ogni anno un numero incredibile di insegnanti si offre al mercato di chi richiede yoga, un mercato in crescita sia per moda che per autentico bisogno: il bisogno impellente di fermare la “ruota del samsāra”, che altro non è che la ruota del criceto, a noi tanto cara.
Se guardiamo indietro nel tempo, i veri maestri potevano vantare tra le loro virtù quella di aver innestato la pratica in centinaia, migliaia di piccoli alberi alla ricerca di luce. Si creavano praticanti, non insegnanti. Questa era la via principale che, con grande generosità, i maestri del passato perseguivano. Sapevano capire che tutti erano pronti per una verità più grande, ma non tutti erano in grado di portarla al prossimo. Nella stessa India, accanto a un grande maestro, attorniato da devoti sinceri e meravigliosi, fiorivano al massimo uno o due maestri, anche se in migliaia avevano beneficiato delle sue parole e dei suoi silenzi.
Oggi è tutto diverso, chi vuole creare una scuola non offre semplicemente la pratica – quello strumento incredibile che è la pratica – ma sforna insegnanti. Peccato. Si è persa la vera natura della pratica che ha un senso in se stessa, che non chiede cambi vistosi di vita e che si offre solo di valorizzare ciò che già si è. Non a caso, le persone che si iscrivono ad un corso resistono, spesso, solo il tempo necessario. È il tempo, infatti, a selezionare gli insegnanti. La dedizione, l’applicazione, la propensione agli studi, lo spirito di sacrificio forgiano i veri insegnanti.
E poi non c’è più una selezione da parte della scuola, a parte quella basata sulla mera disponibilità economica del costo del corso. Nessuna selezione iniziale, nessuna selezione alla fine di un primo o secondo anno potenzialmente amatoriali, ottimi per chiunque: non la richiede il formatore, sarebbe una zappa sui piedi, non la accetterebbe il discepolo, in quanto raramente si instaura “quel tipo” di fiducia.
Parliamo di questa fiducia.
Anni addietro, non tantissimi ma ormai scavallano il secolo, si andava da un maestro per ricercare. Il maestro poteva accettarti o non farlo, il suo giudizio era insindacabile e bastava, la fiducia era tale che nessuno avrebbe pensato che il maestro si fosse sbagliato, piuttosto avrebbe messo in discussione la propria preparazione, il proprio atteggiamento, le parole dette o non dette, ecc..
Oggi la relazione maestro-discepolo è diversa, da pari a pari, una relazione tra consumatori di un settore comune, pur con ruoli diversi. Mancanza di un rapporto di fiducia verso il maestro – che forse non è un vero maestro – ma anche verso la vita, che vera è sempre ma magari si può sbagliare anche la vita, se ci ferma, se ci dice vai piano, se cambia i nostri percorsi.
Sentiamo dire: il caposcuola è una bravissima persona, ha un dolce sguardo, è molto preparato, è carismatico, la sua conoscenza tecnica mi può dare molto. Così la spiritualità a poco a poco svilisce, nasce il consumismo spirituale e con esso una generazione di maestri-insegnanti, ottimi insegnanti per carità, tecnici dello yoga, divulgatori eccellenti, ma incapaci di testimoniare con la loro vita quello che un maestro dovrebbe. Uno spiraglio sul mistero della vita. Un semplice spiraglio, questo offre un maestro. E se il maestro perde la propria visione, la perde anche il discepolo. Fraintende. Entra in crisi ma non sa orientarsi.
E’ naturale che le nostre vite, il nostro lavoro, i nostri studi, le nostre passioni talvolta entrino in crisi, proprio come entra in crisi un rapporto di coppia, un luogo in cui si vive, uno stile di vita. E’ naturale, ci si rinnova continuamente. Ma il rinnovamento chiede una forma diversa? Non domanda piuttosto sostanza, mutamento interiore, spostamento di visuale? Ed è necessario cambiare lavoro? Perché abbiamo questa ansia di diventare tutti insegnanti di yoga, tutti terapeuti, tutti operatori del benessere? E sopratutto, il benessere è arrivato nella nostra vita o cambiamo vita per convincerlo ad entrare?
L’isola della nostra vita va a fuoco. Le fiamme sono ovunque. Passa una nave, si chiama Yoga. Ci salgo, sono salvo, ma per questo divento marinaio? Sono solo uno che prende un passaggio. Magari mi innamoro del mare, mi porta in giro per porti per un po’. Divento marinaio. Ma voglio davvero diventare il comandante della nave? E’ così che funziona? Non accade piuttosto che un bambino o un giovane o anche un adulto un giorno vada al porto, veda delle splendide navi. Si innamora. Non sa più pensare ad altro che all’odore del porto e al colore del mare. Non ha una vita di insoddisfazioni da lasciare. Non ha un’isola in fiamme da evacuare. No, si innamora e basta.
Oggi il manager entra in crisi e decide di piantare cavoli, l’informatico vuole aprire il B&B sulle colline toscane e l’avvocato diventa insegnante di yoga. Dall’altra parte non c’è nessuno che ci aiuta a capire, che ci dice: guarda attentamente, va bene, sei insoddisfatto, cambia la tua vita, ma non occorre che cambi tutto. Cambia dentro, resta dove sei ma cambia dentro. Questo direbbe un maestro. Ma bisogna cercarlo un maestro così, bisogna volerlo. E poi accettarne le conseguenze. Le sue frasi scomode, pungenti. E in questo caso c’entra poco sei hai la retta per il triennio.
Non basta organizzare il tempo e il denaro per il corso di formazione.
Sono in gioco altre cose.
Oggi ci sono bravi insegnanti che invece di insegnare decidono di formare altri insegnanti. Li chiamiamo “maestri”, spesso diventano famosi, hanno tanti seguaci, un bel sito internet, una buona comunicazione, un centro grande e architettonicamente accattivante, sono presenti su facebook, menzionati dai media, e questi maestri ti dicono “diventa insegnante, cambia la tua vita”. Non ti dicono, come avrebbero detto Yogananda, Ramana, Aurobindo, Sai Baba – pur con linguaggi diversi – fermati, comprendi cosa non va, aiutati con la pratica. Ergo, pratica di più. No, ci vuole un coraggio immenso per dire questo, vuol dire deludere un’aspettativa, vuol dire poter essere non compresi. E così nessuno oggi ha il coraggio di dirci: non sei pronto, sei pronto per praticare, per carità, sia benedetta la tua pratica – ma non per insegnare.
Una scuola così sarebbe oggi impopolare, e poco redditizia. E ci vorrebbe coraggio per creare una scuola così, il coraggio di dire quello che si vede, il coraggio di essere veramente un maestro (che per definizione vede più in là) o di non esserlo affatto, e quindi astenersi dal formare, dal produrre persone confuse e dall’illudere.
Questo lo stato delle cose.
Addolcendo il discorso e salvando la praticità occidentale, basterebbero il buon senso e l’onestà: si potrebbero creare scuole di tre anni, di cui il primo per tutti, amatoriale, per aiutare chiunque ad approfondire la propria pratica personale. Un anno aperto a tutti. Tutti si meritano di migliorare la propria pratica. E due anni solo per chi fosse, per capacità, per predisposizione, per motivazioni e per tanto altro ancora, pronto per diventare insegnante.
E a queste scuole potremmo chiedere di avere – sì, siamo noi a doverlo chiedere! – un caposcuola che abbia qualcosa in più di una buona preparazione tecnica. Qualcosa in più di un bel percorso di anni nello yoga. Qualcosa che è difficile valutare da fuori, ma che le scelte stesse della scuola, serie, oneste, profonde, potrebbero rivelare appieno.
E la sua presenza anche. La sua semplice presenza dovrebbe bastare, come è sempre stato. Non serve una buona o anche ottima idea per diventare maestri. Né una strategia commerciale, la capacità di vendersi, di comunicare l’idea vincente. Questi sono i creativi dello yoga, e ognuno a suo modo lo è. Offrono modulazioni ad un unico strumento. Ognuno di noi che insegna offre la propria modulazione.
Ma questo basta per mettere su una scuola? E non sarebbe più serio dirsi e poi dire quelle tre benedette parole prima di invitare le persone a salpare?
Scopri chi sei – invece di “ti dico chi sei”. Basterebbe questo.
Un atto di coraggio, onestà e verità profonde.
Il cambiamento non è fuori, ce lo diciamo da secoli ma è verità ancora distante.
Un giorno saremo tutti insegnanti di yoga e avremo tutti un bel B&B in collina, ma non per questo più veri, né più liberi o felici. E soprattutto, ci si sarà svelato lo yoga? Se aprire quella porta chiede di andare dentro, chi avrà avuto il coraggio di farlo? O avremo solo fatto un cambio di forma, di mestiere? E non potevamo praticare di più restando avvocati, magistrati, commercialisti? Non abbiamo, noi come mondo, bisogno urgente di uomini e donne in tutti i settori che sappiano essere meno violenti, meno arrivisti, meno competitivi – meno identificati – piuttosto che avere uno stuolo di insegnanti di yoga, famelici, sorridenti, iper-flessibili, in cerca di cavie da testare? E se tutti diventiamo insegnanti chi saranno i nostri discepoli, i marziani? Gli abitanti di galassie lontane?
Chi insegna può portare i propri studenti solo dove è arrivato, non oltre. Aiutiamo allora noi stessi a capire chi siamo, e gli altri a noi vicini si chiederanno chi sono. Non “cosa” devono fare o diventare. Solo chi sono.
Allora si rende evidente la differenza tra il chiedere a se stessi una faccia più bella – più rilassata, più distesa, più amorevole – oppure un volto più vero.